Buongiorno cari lettori, oggi torniamo ancora una volta dalla maestra giapponese Yoko Ogawa, con due racconti brevi editi da Adelphi.

Appena ho iniziato a leggere questo libro, un martedì mattina a colazione, l’ho amato. Sapete quanto io sia vittima della magistrale e torbida scrittura di questa autrice. Mi incanta come una sorta di pifferaio magico e meraviglioso. E io naturalmente mi faccio trascinare negli abissi più profondi, mi fido.

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Il primo racconto, Una perfetta stanza di ospedale, racconta in prima persona la storia di questo donna il cui fratello muore dopo una lunga malattia. I due erano legatissimi fin da bambini e questo loro attaccamento si ravviva una volta di più quando lui scopre di essere malato. Lei fa in modo di farlo ricoverare nell’ospedale universitario dove lavora e passa ogni momento libero con lui, nella sua stanza singola. Tanto più la camera rimane immacolata quanto più il fratello si indebolisce, quasi che la sorella voglia trasmigrare la perfezione di lui a qualcos’altro, concentrandosi su un oggetto inanimato per soffrire meno. Veniamo a conoscenza di sprazzi della loro adolescenza attraverso i suoi ricordi. La madre, mentalmente disturbata, non si occupava della casa né dei pasti. Da queste esperienze nascono le ossessioni estreme della protagonista. Considerazioni morbose sul cibo, i colori, la vita, la pulizia condizionano ogni sua esperienza sensoriale.

IMG_20180309_112041.jpgHo ritrovato in questo racconto molti aneddoti e situazioni già incontrati in altre sue raccolte più recenti (La casa della luce e Vendetta, di cui vi ho già parlato). Mi sono sentita a casa. La scrittura lirica della Ogawa ci trasporta come su una nuvola, in un’atmosfera del tutto diversa, assopita, sterile. Gli occhi della protagonista, attraverso cui conosciamo il fratello e il dottor S., ci mostrano la ricerca spasmodica di un mondo perfetto. L’assenza di suoni, odori e sofferenza. Ho letto quasi tutta la produzione disponibile in italiano di questa autrice e posso dire, senza dubbio, che questo racconto è il più crudo e immaginifico in cui mi sono imbattuta. Una meraviglia del suo stile così nitido e particolareggiato.

Il secondo racconto, Quando la farfalla si sbriciolò, è intessuto di parole dure e compresse, mi ha trasmesso un profondo senso di smarrimento e sconforto. La giovane Nanako è costretta a portare sua nonna in un pensionato per anziani, ormai troppo debole per alzarsi dal letto e mangiare da sola. Con l’aiuto del fidanzato compie questo gesto che la colma di un forte senso di colpa e di un vuoto che non riesce proprio a riempire. Quando ritorna nella casa in cui è cresciuta e vive, e che ha condiviso per tutta la vita con sua nonna, si sente profondamente smarrita. Non riesce più a distinguere quale sia la vera realtà a cui aggrapparsi, in cui lei è destinata a rimanere e continuare a esistere, sola. E’ un racconto assolutamente intimistico, come tanti di quelli di Yoko Ogawa. A un certo punto la solitudine di Nanako riuscirà a veicolarsi verso una cosa inanimata e su di essa sfogarsi: l’esemplare imbalsamato di una farfalla gialla e nera.

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Consiglio questo libro a chi ha saputo apprezzare i racconti di questa autrice e ancora non conosce questa mirabile e brevissima raccolta. Non può mancare nella biblioteca di chi vuole apprezzare fino in fondo il vero essere e sentire artistico giapponese. Per chi invece è ancora alle prime armi, in materia di letteratura nipponica, lo consiglio se ha lo stomaco forte e un bisogno di andare oltre e superare le solite frasi incolonnate e parole in fila. Questo libricino vi aprirà un piccolo oblò su una dimensione che forse non avete mai incontrato.

A tutti voi, una buona lettura, sempre.

Non poteva fare a meno di immaginare la sensazione che avrei provato nel mettermi in bocca quella panna. In realtà non era nelle mie intenzioni, ma senza il mio permesso la lingua l’assaggiò. Inondata dai raggi del sole, aveva lo stesso tepore della mia lingua. Ormai si era squagliata, disfatta. Subito riconobbi un gusto zuccheroso vegetale. Allo stesso tempo le formiche si misero a vagare su lingua e gengive. Le loro zampette, impigliandosi nelle mucose, mi facevano il solletico. E già mi sgusciavano fuori dalla bocca, come se le loro uova si stessero schiudendo.

“Che significa questo?” gridai a voce tanto alta da sputare fuori le formiche ricoperte di panna.


Come mio fratello anche io, a poco a poco, persi appetito. Anche se mi riproponevo di fare un pasto completo alla mensa dell’ospedale o da qualche altra parte, la bocca dello stomaco si chiudeva non appena ricordavo la fragile nuca di mio fratello quando, scusandosi, scendeva dal letto, o la sensazione umida e scivolosa che mi dava il nodo del sacchetto di plastica. Più lui rimetteva cibo, più la sua pelle bianca mi pareva farsi diafana . Progressivamente ogni odore sparì dal suo corpo. Pareva che egli si fondesse con la purezza di quella stanza di ospedale.

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Autrice: Yoko Ogawa (Classe 1962, Okayama)

Titolo: Una perfetta stanza di ospedale

Anno: 1989

Casa editrice: Adelphi

Prima edizione italiana: 2009

N. Pagine: 128