Quindicesimo piano

di Serena Lavezzi

Chao uscì dal ripostiglio del ventesimo piano. Guardò a destra e a sinistra del corridoio. Silenzio assoluto, nonostante l’ora. Abbassò lo sguardo all’orologio che teneva al polso, prestato da suo fratello quando aveva iniziato quel lavoro. Grazie ad esso era riuscito a guarire il suo ritardo cronico, infatti era sempre in anticipo adesso. Ora segnava le due del pomeriggio, in punto. Il turno era finito.
Una volta riposte scope, sacchi e palette nel ripostiglio, i suoi compiti erano finiti. Poteva tornare nel suo letto a riposare per qualche ora. Aveva dato la disponibilità a lavorare su due turni, quindi prima di notte sarebbe ritornato. In tutto c’erano sessanta piani, ogni addetto alle pulizie ne aveva venti da gestire. In realtà il lavoro non era così pesante, almeno per lui che aveva lavorato per due anni in una fabbrica vicino Chengdu, casa sua. In quel condominio doveva solo spazzare i corridoi, fare manutenzione alle lampade e agli spazi comuni. Occuparsi di tenere ordinate le cinque lavanderie automatiche dello stabile e pulire i vetri delle finestre.
Aveva trovato questo lavoro appena arrivato a Pusan. Lasciando la Cina si era ripromesso di crearsi una vita migliore, di guadagnare e mettere da parte i soldi, trovare una brava ragazza, sposarla e formare una famiglia. Solo allora avrebbe preso in considerazione di tornare dai suoi genitori. Per il momento si era sistemato in un misero monolocale nel piano interrato del condominio di lusso, il proprietario gliel’aveva offerto decurtando una piccola somma dallo stipendio. Non navigava nell’oro, ma si sentiva fortunato rispetto alla vita di fatica che faceva al suo paese.
Si infilò una felpa larga sopra la camicia della divisa e prese l’ascensore di servizio per scendere dal 20 al -1. Sorrideva, pensando alla poltrona che lo aspettava a casa. Avrebbe subito acceso la stufetta, si sarebbe scaldato del riso con carne e aperto una birra. Poi una dormita e di nuovo ai piani alti.
L’ascensore si fermò al quindicesimo, probabilmente qualcuno l’aveva chiamato poco prima. Le porte aperte mostrarono il corridoio vuoto, coperto dal solito tappeto blu scuro. Non c’era nessuno. Chao ormai conosceva quasi tutti gli inquilini dei piani a lui assegnati. Con parecchi aveva un rapporto cordiale, molti lo salutavano e gli chiedevano come stava, altri lo ignoravano e alcuni lo osteggiavano per chissà quale motivo. Lui restava gentile con tutti, non voleva grane, quel lavoro gli serviva.
Mise la testa fuori, ancora nessuno. Stava per schiacciare il tasto con il numero -1 in rilievo, quando sentì distintamente un urlo. Se di uomo o di donna era difficile definirlo, ma proveniva da sinistra. Chao uscì dall’ascensore e si incamminò in quella direzione. In un condominio con centinaia, anzi migliaia, di persone come quello era facile imbattersi in conversazioni private, litigate, pianti, risate. Lui ne aveva sentite di ogni genere da quando lavorava lì. Aveva imparato abbastanza bene la lingua grazie a un corso serale che frequentava dopo la fabbrica e da quando lavorava lì era migliorato molto. Nonostante fosse abituato ad ascoltare, anche senza volerlo, quell’urlo in particolare l’aveva messo in allarme. Si trattava di un istinto irrazionale, un brivido che aveva percepito dietro alla nuca, alla base del collo. Avanzò lungo il corridoio, il tappeto attutiva ogni suo passo.
Tese l’orecchio, ma non riuscì a sentire nient’altro. Forse si era trattato di una televisione troppo alta. Si voltò per tornare indietro e vide con la coda dell’occhio qualcosa di color giallo senape. Svolazzava nell’aria, dove il corridoio formava un angolo e svoltava a sinistra. Si fermò. Era una sciarpa, al collo di un uomo. Lo intravide mentre camminava a passo svelto, poi spariva dalla vista. Probabilmente un condomino che andava di fretta. Chao ritornò all’ascensore e si fece portare fino al seminterrato. Questa volta non ci furono interruzioni e dopo un quarto d’ora era nel suo monolocale.
Sei ore dopo un rumore violento e ripetitivo lo svegliò. Aprì gli occhi, la stanza era immersa nel buio. Si rese conto che era qualcuno al di là della porta che bussava
“Arrivo, arrivo. Chi è?”
“Sono Hong-du, svegliati!”
Chao scostò la coperta di malavoglia e controllò subito l’ora, non era in ritardo. Si alzò e aprì, accendendo la lampadina che penzolava dal soffitto.
“Che vuoi? Non è ancora iniziato il mio turno.”
“Non hai sentito cos’è successo al quindicesimo? E’ la tua zona!” lo fissò il collega, aveva due occhi grandi e spalancati.

Ayame sentì qualcuno che correva oltre la porta del suo appartamento. Si avvicinò per guardare dallo spioncino. Il suo gatto Koichi la seguì subito, infilandosi tra le caviglie.
“Mmm… c’è parecchio movimento Ko. Pezzi grossi. Guarda un po’, il proprietario addirittura, il portiere, un poliziotto… no due poliziotti e un tipo vestito elegante. Oh, ma c’è anche Chao.”
Ayame abbassò per un attimo lo sguardo al gatto. Si era seduto composto e la guardava incuriosito, come se la stesse ascoltando sul serio. Lei annuì e tornò a sbirciare dall’occhiolino.
“Dobbiamo chiedere a Chao cosa succede…mmm.”
Rimase così per ancora due minuti buoni, ma non passò più nessuno e non si sentivano altre voci provenire dal corridoio. Il tappeto blu rifletteva le luci delle applique a muro.
La ragazza controllò che la porta fosse ben chiusa a doppia mandata, poi tornò al tavolo. Era posizionato a metà tra la cucina e la saletta, con un divano e una televisione gigante. Ayame era solita spostare l’arredamento ogni mese e questa era la sua ultima composizione. Odiava vedere sempre gli stessi scorci. Il tavolo era ingombro di pacchetti di patatine, bibite, un piatto con dei sandwich a metà e una scatola di latta contenente pasticcini alla crema. Quelli erano freschi e glieli aveva lasciati sua zia fuori dalla porta giusto quella mattina.
Erano nove mesi che Ayame non usciva più di casa. A chiunque glielo avesse chiesto, avrebbe risposto che semplicemente non ne sentiva il bisogno. Nell’appartamento aveva tutto ciò che le serviva, la spesa si era offerta di fargliela sua zia che abitava nello stesso palazzo. Non aveva amici, solo un paio e abitavano lontani, si sentivano con Skype o in chat. Trascorreva le sue giornate a leggere, guardare film sul grande schermo piatto, giocare su internet. Aveva scovato da quasi un anno un gioco in particolare, dove si poteva ricreare la vita vera. Lo trovava molto più soddisfacente che socializzare con le persone in carne ed ossa. La fortuna, da questo punto di vista, la accompagnava. L’appartamento, infatti, l’aveva ricevuto in eredità dai nonni, insieme a una discreta somma di denaro. Loro l’avevano comprato a basso prezzo dopo la guerra, facendo un affare. Anche la figlia l’aveva fatto, la zia di Ayame. La ragazza si era trasferita a Pusan da Kyoto quando i nonni erano morti, non aveva più nessuno in Giappone. La sorella di sua madre abitava già lì da qualche anno. Non spendeva molto e per questo non aveva bisogno di entrate extra. La sua vita era perfetta, per quanto la riguardava.
Tornò al tavolo e accese il computer, dopo aver buttato via tutte le cartacce. Si accorse che il sacco dell’immondizia strabordava di pacchi e fazzoletti e bottiglie vuote. Avrebbe dovuto chiamare Chao al più presto. Quel ragazzo era sempre gentile e sbrigava per lei qualche faccenda, Ayame gliene era molto grata.
In realtà tra i due c’era anche stato qualcosa di più. I primi mesi che era venuto a lavorare nel palazzo, lei lo spiava dallo spioncino andare su e giù e pulire con entusiasmo. Non aveva mai visto un cinese così da vicino, lo trovava molto carino. In realtà aveva conosciuto, fino ad allora, solo dei ragazzini da niente. Lui invece era un vero uomo, nonostante la giovane età. Sin dalla prima volta che si erano visti lei si era sentita attratta da lui. Era successo diverso tempo prima, quando lei ancora usciva di casa. Però avevano iniziato a parlarsi e conoscersi un po’ di più solo quando lei aveva smesso di addentrarsi fuori dalla porta. Lui si premurava di aiutarla, di farle qualche commissione quando aveva bisogno o altre piccole cose. Lei, dal canto suo, cercava di non esagerare nell’approfittarsi di lui.
Una sera, durante il turno di lavoro, aveva bussato alla sua porta. Le aveva portato il cibo per Koichi, era andato a prenderlo nel pomeriggio. Ayame l’aveva fatto entrare e dopo qualche istante, in cui non erano riusciti a smettere di guardarsi, si erano baciati. Poi avevano fatto sesso, senza implicazioni né aspettative. Erano due giovani che scacciavano via i demoni del futuro, nient’altro. In questi termini Ayame aveva sempre pensato a quei loro incontri intensi e fugaci. Da quella volta era capitato spesso. Quella sera, in particolare, non si erano messi d’accordo e non avevano in programma di vedersi.
Prese il cellulare e gli scrisse un messaggio nella chat.
Ciao. Ho visto che c’è trambusto al piano. Successo qualcosa?
Aspettò con il telefonino tra le mani per cinque minuti buoni, immobile, ma non giungeva alcuna risposta. Strano, di solito Chao le rispondeva subito.
Ayame decise di dedicarsi al gioco online. Stappò una bibita e infilò le grandi cuffie alle orecchie, dimenticandosi di quello che la circondava.

Dae-hyun si slacciò il primo bottone della giacca e si accomodò sul sedile posteriore. Il telefonino continuava a vibrare nella sua tasca, ma non aveva voglia di leggere i messaggi e le e-mail di lavoro. Se l’avesse preso in mano ora, non sarebbe più riuscito a staccarsene.
“A casa, Signore?” la voce dell’autista arrivò dal posto di guida.
“Sì, sì” annuì appena.
Si lasciò sprofondare nella pelle fredda del sedile, si sentiva esausto. Era stata una giornata da incubo, iniziata tardi e con le peggiori prospettive. Cercò, prima di tutto, di fare mente locale sugli ultimi minuti che aveva trascorso in ufficio. Aveva lasciato i documenti alla segretaria, ordinatamente divisi nelle apposite cartelline colorate. Aveva salvato i documenti più importanti sull’hard-disk della società, come da protocollo, lo faceva ogni sera prima del week-end. Aveva fatto pulizia delle vecchie bozze dal computer e controllato le e-mail più rilevanti, a cui si aveva risposto subito. Proprio prima di uscire si era ricordato di dover fare due telefonate. Si era seduto di nuovo e aveva sbrigato anche quelle faccende in mezz’ora circa. Era stato meticoloso come sempre, non aveva lasciato questioni in sospeso. Questo pensiero riuscì a farlo rilassare del tutto. Poteva ufficialmente sgombrare la mente fino al lunedì, anche se prima o poi avrebbe dovuto dedicare almeno un’ora ai messaggi e alle nuove email, ma aveva tempo.
I programmi per il week-end erano molto semplici: non avrebbe messo piede fuori casa. Alla spesa ci aveva pensato la domestica, la signora che andava a tenergli pulita la casa una volta alla settimana. Non avrebbe dovuto preoccuparsi di niente. O quasi.
Scacciò quel pensiero e sospirò a fondo.
“Giornata pesante in ufficio, Signore?” chiese l’autista.
Erano abituati a chiacchierare durante il tragitto. Ormai si conoscevano da più di dieci anni, sebbene i loro ruoli fossero molto diversi all’interno della stessa azienda.
“Esatto, più del solito. A te com’è andata?” osservò la sua nuca grigia, in parte coperta dal berretto.
“Ho macinato un bel po’ di chilometri anche oggi” annuì, sorridendo nello specchietto.
Cinque minuti dopo l’auto si fermò lentamente di fronte al palazzo. Dae-hyun salutò e scese sul marciapiede. Il vento freddo gli lanciò delle foglie rosse tra i piedi. Il portinaio si portò la mano alla visiera e lui superò le porte rotanti. Nell’ingresso c’era più movimento del solito, se ne accorse subito. Vide un poliziotto in divisa, vicino ad un uomo in giacca e cravatta, probabilmente un collega in borghese. Stavano parlando con una signora, l’aveva già vista e sapeva bene chi fosse. Dae-hyun tirò dritto verso l’ascensore, senza rallentare. Il cuore iniziò a battergli con forza nel petto, ma si schiarì la voce e raddrizzò la schiena. La propria figura imponente e rispettabile riflessa nelle porte chiuse dell’ascensore lo riscosse e il panico scemò. Attese qualche minuto e le porte scorrevoli si aprirono, lasciandolo entrare. Schiacciò il tasto numero 15, benedicendosi per alcune decisive scelte di quel pomeriggio.
Appena arrivò al suo piano, si guardò intorno incuriosito. Vuoto e silenzio. Non c’era nessuno apparentemente, anche se si aspettava di veder spuntare lo spazzino da un momento all’altro. Prima o poi sarebbe passato di lì, di sicuro.
Dae-hyun svoltò subito a sinistra, in direzione del suo appartamento. Appena fu all’interno chiuse a chiave e solo a quel punto riuscì a rilassarsi. Mise da parte il completo elegante che aveva indossato quel giorno, la domestica avrebbe pensato a lavarlo e stirarlo. S’infilò dei pantaloni comodi e una camicia pesante. Lasciò il cellulare sulla scrivania dello studio, premurandosi di togliere prima la vibrazione.
L’appartamento era spazioso, anche troppo grande per un uomo solo. Dae-hyun non si era mai sposato. Ne aveva avuto la seria intenzione soltanto una volta, circa vent’anni prima quand’era ragazzo. La cosa non era andata in porto e da lì non aveva più preso davvero in considerazione quell’eventualità. C’erano state delle donne naturalmente, ma niente di serio. Si era dedicato anima e corpo al lavoro, era diventato vice direttore e aveva iniziato a guadagnare cifre impensabili. Quasi tutto era ancora sul suo conto personale, non aveva grandi occasioni per spendere quei soldi. I suoi unici giorni liberi erano il sabato e la domenica. Non aveva amici al di fuori di alcuni colleghi di lavoro, con cui ogni tanto organizzava delle serate. Preferiva starsene a casa a dormire e riposare.
Forse era stato per questa concomitanza di fattori che gli era venuto in mente. Doveva essere accaduto circa tre mesi prima, non era molto in effetti. Un sabato pomeriggio per l’esattezza, aveva dormito fino alle due del pomeriggio e non aveva altri impegni per la giornata. Si era preparato un caffè solubile forte e lungo, poi aveva sentito un rumore provenire dal corridoio. Si era accostato allo spioncino per dare un’occhiata, quasi infastidito da quel chiasso.
La sua visuale venne attraversata da una donna che correva, sentiva la sua risata e di sfuggita era riuscito a notare che indossava qualcosa di blu scuro. Aveva aperto la porta, giusto in tempo per vederla entrare nell’appartamento quasi di fronte al suo. Rientrò, confuso. Erano anni che abitava in quel palazzo ed era sicuro di non aver mai visto quella donna. Solo dopo qualche ora gli venne in mente che di recente i vecchi inquilini di quell’appartamento avevano traslocato. Quella doveva essere la nuova arrivata.
Aveva continuato a pensarci e l’indomani, la domenica mattina, si era deciso a usare uno stratagemma. Aveva suonato al suo campanello con la scusa di aver dimenticato il sale, non gli era venuto in mente nulla di più originale.
Ad aprirgli era stata lei. Una donna di una trentina d’anni all’incirca, con i capelli lunghissimi. Quel giorno le temperature erano ancora alte, reduci dall’estate. Lei indossava una specie di pigiama, pantaloncini corti e una t-shirt, tutto bianco, di grande semplicità. Preso il sale aveva dovuto congedarsi, non gli era venuto in mente niente da dire per continuare la conversazione. Ma era rimasto folgorato dal suo fascino. Appena tornato a casa, aveva chiuso a chiave e si era masturbato pensando al bordo cucito dei suoi shorts.
I tre mesi successivi li aveva trascorsi, ogni week end e momento libero, a spiarla. Scriveva gli orari di quando usciva e rientrava, com’era vestita, se sembrava triste o felice, le marche di borse che aveva in mano tornando a casa. Tutto quello che potesse dargli delle informazioni sulla sua vita. Poi, un mese fa, si era deciso a fare un passo in più.
L’aveva invitata per una merenda in una pasticceria del quartiere, famosa per le torte in stile occidentale. La donna aveva accettato subito, ne sembrava anzi lusingata. Forse anche lei aveva pensato a lui, se ne era presto convinto. L’incontro era andato bene e da lì si erano visti molte volte. Cene, pranzi, un cinema, qualche passeggiata. Si erano baciati, ma non erano ancora andati oltre. C’era stata un’occasione, di recente, in cui sembravano sul punto di proseguire, ma lei lo aveva fermato. Ancora ferita da esperienze passate, temeva di rovinare tutto. Dae-hyun non aveva parlato a nessuno di questo nuovo rapporto, era un suo segreto. Ancora adesso si masturbava ogni giorno pensando a quanto gli sarebbe piaciuto possederla sul pavimento di casa sua. Ogni giorno che passava, però, si faceva strada in lui la convinzione che non sarebbe mai successo davvero. Lei non gli si sarebbe mai concessa. Non volontariamente. Si era anche convinto che, forse, a ben pensarci, lei gli stesse solo facendo perdere tempo. Una scusa per cenare fuori gratis e uscire, nulla di più.
La rabbia si era mischiata all’entusiasmo con lentezza, come il petrolio in una pozza di latte. Ma era un processo inesorabile. Aveva scavato dentro di lui, arrivando a sovrastare i sentimenti che l’avevano spinto verso di lei all’inizio.
Quel venerdì sera, dopo essersi cambiato dopo il lavoro, stappò una bottiglia di vino e se ne versò un generoso bicchiere. Aprì il cassetto del comodino e tirò fuori il suo secondo smartphone. Era già acceso, segnalava la presenza di tre messaggi. Lì aprì e li lesse tutti.
Ciao, tutto ok?
Ci vediamo sabato? Ho pensato che potremmo andare al mare, per una gita. Che ne dici?
Fammi sapere. Spero che oggi sia andato tutto bene al lavoro.
Risalivano tutti al giorno prima, ma non li aveva guardati la sera precedente perché era troppo arrabbiato. Leggerli ora gli trasmise una fastidiosa sensazione di ineluttabilità. Che senso avevano ormai? Non aveva una risposta. Bevve il vino in un sorso solo e riempì il bicchiere di nuovo. Lo svuotò subito.

Chao si sistemò la divisa e andò a timbrare il cartellino. Non era riuscito a riposare quasi per niente. Dopo che il collega l’aveva svegliato, era stato un susseguirsi continuo di poliziotti, domande, tecnici della scientifica, persone che andavano e venivano. Era rimasto con loro ad assisterli finché il padrone non l’aveva congedato. La sua deposizione era stata registrata, non che avesse molto da dire. Solo che alla fine del suo turno, verso le due del pomeriggio, aveva sentito un urlo e visto qualcuno allontanarsi. Nient’altro. Chao era convinto che comunque nessuno ne sapesse più di lui, quindi le indagini non sarebbero state così semplici.
Una volta tornato nella sua stanza si rese conto che dopo due ore avrebbe già dovuto ricominciare il turno. Nel frattempo gli addetti della polizia avrebbero portato il via il corpo e sarebbe toccato a lui pulire. Aveva messo in conto di metterci tutta la notte. Il proprietario gli aveva detto che per quell’occasione poteva tardare sul resto delle faccende, la priorità era ripulire il quindicesimo piano.
Aveva avuto giusto il tempo di farsi una doccia, sedersi al tavolino per mangiare qualcosa e rispondere ai messaggi di Ayame. In accappatoio, con un piatto di manzo piccante e noodles davanti. Chao era contento di poter parlare con qualcuno.
Ehi eccomi. Sono riuscito a liberarmi solo adesso, sono a casa. Tra poco devo riprendere a lavorare. Hai visto anche tu? Hanno trovato un corpo al tuo piano.
Davvero?? Cioè?? Cos’è successo? E’ morto qualcuno?
Sì, esatto. Una donna giovane, l’ultima arrivata del piano. Si era trasferita qualche mese fa. Non so se l’hai mai vista.
Mmmm mi sa che non so chi è. Come si chiamava?
Lee Soo-kung, aveva trentaquattro anni. Il suo appartamento è vicino al tuo, cinque porte a destra.
Che lavoro faceva? Non la conosco comunque
Non lo so, l’avevo vista appena un paio di volte anche io. Ma viveva da sola. Aveva solo un pesce rosso.
Poverino! Che ne sarà di lui?
Da quello che ho capito ascoltando la polizia non aveva parenti in città, qualche amica soltanto. Non so che fine farà il pesce.
Potrei portartelo stasera, così potrai prendertene cura tu. Devo andare a pulire l’appartamento.
Non è una brutta idea. Koichi ne sarà felice 😛
Ah già! Si divertirà!
Starò attenta che non gli accada nulla, tranquillo. Ko farà il bravo, portamelo pure. Qualcuno dovrà pur sfamarlo, poverino.
Bene, farò così. Allora ci vediamo dopo? 🙂
Sì…ti aspetto.
Verrò tardi però, ho molto da fare. Sono di corsa stanotte.
Non preoccuparti. Ti aspetterò. Ho dei fagioli con riso, te li scalderò quando arrivi.
Grazie 🙂 a dopo
Chao finì di mangiare in fretta, si preparò e salì al quindicesimo. Era tornato tutto come prima, un silenzio ovattato riempiva gli spazi vuoti dei corridoi. Si era già messo d’accordo con il collega, se avesse fatto in tempo gli avrebbe dato un’occhiata ad alcuni dei suoi piani. Lui si diresse all’appartamento numero 188. Aprì con la chiave e si chiuse la porta alle spalle. La casa era silenziosa, tutto sembrava di una normalità spaventosa, tutto tranne la macchia di sangue sul pavimento di legno. Le assi si erano impregnate formando un cerchio gonfio e pieno. Lanciò un’occhiata al piccolo acquario, il pesce rosso era abbastanza cresciuto e sembrava non curarsi di nulla intorno a lui. Chao aveva portato con sé il carrello delle pulizie, anche se di solito lo lasciava nel ripostiglio per praticità. Era sicuro che questa volta gli sarebbe servito. Infilò due strati di guanti in lattice usa e getta e mise al lavoro.
Dopo due ore metà della macchia era perfettamente sparita, le fessure in particolare erano tornate linde e le fughe del pavimento non contenevano più tracce di sangue.
Dopo tre ore un collega lo raggiunse per aggiornarlo. Aveva dato una pulita anche ad alcuni dei suoi piani, se fosse riuscito ci sarebbe ripassato prima di finire il turno. Chao lo ringraziò di cuore e riprese a pulire l’ultima porzione visibile della macchia.
Dopo quattro ore l’orologio che aveva al polso segnò l’una di notte. L’appartamento era pulito finalmente. Era riuscito anche a togliere le macchie dalla parete, dalla porta e dal mobile a isola della cucina. Al resto ci avrebbe pensato un’impresa immobiliare, che si sarebbe anche occupata di riaffittare l’appartamento. Chao fece un ultimo giro di perlustrazione, ma era stato già tutto visionato con il proprietario e la polizia. Non c’erano tracce di sangue nelle altre stanze. Tutto si era risolto proprio lì nell’ingresso, a pochi passi dal divano in pelle bianca. Miracolosamente, quello, ne era uscito intonso. Gli sembrava incredibile. Prima di andarsene prese la boccia del pesce e una confezione di mangime che era lì a fianco.
Quando bussò al 180, Ayame aprì subito, lasciandolo entrare.
“Koichi vieni a vedere” lo chiamò.
Il gatto si stiracchiò le zampe sullo schienale del divano, si era appena svegliato. Scese giù e s’infilò tra le caviglie di Chao, come faceva sempre. Lui si inginocchiò per accarezzarlo. Ayame posò a terra la boccia, il pesce all’interno sembrava giustamente agitato e sguazzava a destra e a sinistra senza fermarsi. Il gatto lo degnò appena di uno sguardo, poi si diresse alle sue ciotole in cucina.
“Visto? Amici per la pelle” rise Ayame, rialzandosi.
Chao riprese la boccia e la posò su una mensola vicino alla televisione.
“Qua dovrebbe stare bene, credo si sia spaventato, anche se ho cercato di fare piano” lo guardava.
La ragazza si accostò a lui, seguendo il suo sguardo. Rimasero in silenzio per un po’, guardando il pesce. Anche lui, dopo qualche minuto, rallentò il suo girovagare.
“Starà bene.”
“Ah, ecco qua il mangime. L’ho trovato nell’appartamento” le porse la scatoletta.
“Bene grazie.”
Ayame la portò in cucina, mettendola di fianco alle confezioni di croccantini di Koichi. Poi tornò da lui. In quel momento Chao si accorse che indossava un una t-shirt corta e dei pantaloni aderenti. Gli sembrò ancora più bella del solito. Da quando avevano iniziato quella strana specie di relazione, lui non riusciva a capacitarsi di avere avuto tanta fortuna. Era ovvio anche a lui che Ayame non era una ragazza qualunque, aveva qualcosa che non andava per rinchiudersi in casa senza mai uscire. Ma d’altro canto non l’avrebbe di certo mai guardato se avesse vissuto una vita come gli altri. Chao era preoccupato per lei e cercava di renderle tutto più facile, aiutandola ogni volta che poteva. Il fatto che andassero a letto insieme era qualcosa in più, che lui non aveva mai preteso ma di cui era grato. Poteva dire con certezza che Ayame fosse l’unica in quella città straniera a tenerci un po’ a lui. Forse perché entrambi erano nati in altri paesi e si trovavano lì per caso e questo li aveva avvicinati.
“Hai pulito tutto?” lo guardava.
Lui annuì, avvicinandosi a lei. Le posò le mani sui fianchi.
“Sì, a posto. Ho ancora tanto da fare, non posso rimanere molto.. mi dispiace.”
Lei spinse il bacino contro il suo, circondandogli il collo con le braccia.
“Hai fame? Ti scaldo il riso?” mentre parlava gli sfiorava il collo con la punta del naso, era freddo.
“Dopo” le sussurrò.

Dae-hyun era seduto alla scrivania, nello studio. Di fronte aveva il secondo telefonino, l’aveva spento nel frattempo. Era seduto lì da un po’, dovevano essere ormai le quattro di notte, era ubriaco e avrebbe dovuto andare a farsi una bella dormita. Con questa convinzione si alzò a fatica e malamente raggiunse la stanza da letto. Si buttò sul materasso come un peso morto, aspirò a fondo il profumo di bucato che proveniva dalle federe dei cuscini. Chiuse gli occhi, ma subito il viso di Soo-kung gli apparve. Sorrideva, bellissima, come la prima volta che l’aveva vista. Con quel pigiama bianco, luminoso, avrebbe voluto prenderla così, contro la porta dell’appartamento, sul pavimento. Perché non ci era riuscito? Si rigirò supino, il soffitto buio lo guardò di rimando. Sentiva il cuore battere all’impazzata, doveva ritrovare il controllo. Non doveva più preoccuparsi di nulla, era andato tutto bene. Nessuno l’aveva visto e nessuno sapeva della loro relazione, di questo era sicuro. Lei stessa gli aveva confidato di non avere parenti né amiche davvero fidate. Aveva voluto che rimanesse un loro segreto e lui aveva approvato la scelta. Così era stato tutto più facile, anche troppo forse. Del resto non era stato nulla di pianificato, né di programmato da parte sua. Era successo e basta. Lei era così scostante, arrabbiata, forse perché lui non le aveva risposto. Sicuramente per quello. Dae-hyun aveva pensato di avvicinarsi e toccarla, per stemperare i toni e farla calmare. Ma lei aveva urlato, come se lui fosse una specie di schifoso maniaco. Erano fidanzati in un certo senso, cosa c’era di male? Era stato solo allora che l’idea aveva iniziato a farsi largo nella sua mente. Mentre la vedeva indietreggiare spaventata, dopo quell’urlo. Avrebbe potuto giurare che le sue mani si erano come mosse da sole, indipendenti da lui. Solo alla fine aveva ripreso a respirare, il cuore stranamente calmo, un’erezione nei pantaloni. Era rimasto immobile per qualche minuto, ma lei non si muoveva più. L’unico movimento nel suo campo visivo era la pinna rossa di quel pesciolino. Gliel’aveva regalato lui, l’avevano vinto insieme in uno stupido gioco in fiera. Lei l’aveva chiamato Dae-dae, come per prenderlo in giro e a lui era piaciuto molto.
Il sonno ebbe la meglio. Sognò di nuotare nella bolla insieme al pesciolino, in uno stato di immensa pace.
La mattina a svegliarlo fu il mal di testa, la sveglia sul comodino segnava le dieci e dieci. Mandò giù un’aspirina per l’emicrania e bevve un tè bollente. Solo dopo mezz’ora riuscì a riordinare le idee e strutturare pensieri sensati. Voleva sbarazzarsi del telefonino. Non era di quelli intestati, per cui risalire al proprietario era impossibile, l’aveva pagato in contanti, ma non era comunque prudente continuare a tenerlo con sé. Andò in cucina a prendere il sacchetto dell’immondizia che teneva sotto al lavandino. Prese il telefonino, lo calpestò con delle vecchie scarpe da ginnastica, poi buttò tutto nella spazzatura. Infilò il primo sacchetto in un secondo per irrobustirlo e si vestì con una tuta da casa.
Nel corridoio non c’era nessuno. Arrivò all’ascensore e premette il bottone per il seminterrato. Da lì si poteva accedere ai garage, al locale caldaie e a quello per lo smaltimento rifiuti. Avrebbe solo dovuto nascondere il suo sacco in mezzo a quello di tutti gli altri. L’indomani gli spazzini si sarebbero occupati della raccolta, non aveva nulla di cui preoccuparsi e si sentiva tranquillo.
Le porte si aprirono su uno spazio dalle pareti grigie e tubi a vista. C’erano diverse porte, tutte chiuse e con i cartelli Riservato al personale. Non entrare. Dae-hyun fece per dirigersi verso sinistra, quando sentì una voce. Proveniva dal locale caldaie più avanti, riconobbe subito l’accento cinese dello spazzino del suo piano. Non ne ricordava il nome. Si fermò, pensando se fosse meglio proseguire o tornare indietro. Intanto la voce del ragazzo riempì l’aria.
“No Ayame, non ho più visto nessun poliziotto. Staranno indagando, ma credo che ce l’avranno dura visto che nessuno ha visto niente. Sì, beh, io ho visto un tizio con la sciarpa, ma non so bene chi sia, per cui… eh ieri volevo parlartene, poi mi hai distratto” rise.
Dae-hyun rimase impietrito per qualche istante, poi mollò a terra il sacchetto e si accostò alla stanza. Non riusciva a credere alle sue orecchie. Quel miserabile cinese l’aveva visto. Certo, pensò, la sciarpa l’aveva buttata via subito perché si era inavvertitamente macchiata. Ma restava il fatto che avrebbe potuto riconoscerlo, forse. Un problema che non aveva messo in conto. Una profonda rabbia lo travolse.
“Dici che potrebbe essere quel tizio? Sì sì più o meno ho capito chi è, ha la puzza sotto al naso e crede di essere chissà chi. Prossima volta che lo vedo ci faccio caso. Ma dici che si conoscevano? Chissà sì… dai finisco i lavori, ci sentiamo dopo.”
Dae-hyun era convinto, da sempre, che la qualità migliore di un uomo fosse la prontezza e la capacità di adattarsi alle situazioni più estreme. Quindi non fece rumore, non si fece prendere dal panico, reagì con fermezza e rapidità.

Ayame era ancora a letto, non aveva voglia di alzarsi. Koichi miagolava con insistenza dalla cucina.
“Arrivo Ko! Ho capito.”
Il gatto l’aspettava seduto sul tavolo come una statua. Si mosse solo quando la vide prendere una confezione di cibo al salmone.
“Eccoti qua, contento?”
Si diresse in bagno e si fece una breve doccia. Lasciò i capelli bagnati, protetti da un asciugamano. S’infilò una t-shirt lunga e un paio di slip. Le era venuta fame, aprì il frigo ma non c’era niente di allettante. Cercò nella dispensa e trovò una confezione di macarons al cioccolato. Li mangiò rimanendo in piedi, nella casa silenziosa.
Quando sentì bussare non si allarmò, era convinta che fosse Chao. Non erano soliti sentirsi al telefono, ma forse la conversazione gli aveva messo voglia di andare a trovarla. Andando ad aprire non si comportò com’era solita fare, con circospezione. Penso che non sarebbe stato necessario, del resto nessuno la andava mai a trovare. O era lui o sua zia, in effetti poteva anche essere lei. Forse aveva sentito del delitto ed era preoccupata. Con questi pensieri Ayame attraversò la cucina e l’ingresso. Spalancò la porta senza pensarci.
Si trovò davanti il signor Park. Strabuzzò gli occhi. Non ripensò alle parole che aveva detto a Chao, non le vennero per niente in mente.
“Signor Park? E’ successo qualcosa?” uno dei suoi sopraccigli perfetti s’inarcò.
Conosceva quell’uomo perché anche lui abitava nel palazzo da molti anni. Non lo vedeva da almeno un anno, ma era rimasto uguale identico a come lo ricordava. Ora sembrava stravolto, i capelli erano in disordine e non l’aveva mai visto con una tuta sportiva addosso.
L’uomo entrò senza dire niente, lei dovette scostarsi per evitare che le andasse addosso. Non sapeva se chiudere la porta o meno. All’improvviso la situazione, da bizzarra qual’era fino a un secondo prima, diventò fastidiosa. Nessuno, a parte Chao, entrava in casa sua da nove mesi.
“Si sente bene signor Park? Devo chiamare qualcuno per aiutarla?”
Ayame deglutì e strinse forte la maniglia della porta, ancora aperta. Fu lui a chiuderla, ci mise un secondo e fu velocissimo. Solo quando lo vide voltarsi e spingere la porta con forza le venne in mente la conversazione con Chao. Koichi iniziò a miagolare.
Dae-hyun sorrise appena. Le cose non erano andate come sperava, no davvero, ma ormai doveva arrivare alla fine. Non esistevano soluzioni alternative, le aveva già vagliate tutte, inutilmente. Si avvicinò alla cucina, sorpassò il gatto bianco e prese con naturalezza un coltello dal tagliere vicino al lavandino.

Dae-dae guizzò di scatto verso sinistra, spaventato. Una poltiglia rossa aveva oscurato la sua visuale. Sentiva un rumore lontano, per lui indefinibile. Koichi iniziò a raschiare il parquet di legno con foga, soffiando.

the end

Vi aspetto nei commenti e grazie per aver condiviso con me questo racconto.