Buondí lettori! Oggi vi propongo il racconto che ha vinto il concorso letterario di Penne d’Oriente, preceduto dall’intervista all’autore. Seguitemi!

47047994_378591622928577_4741564029867130880_nVi presento Antonino Impellizzeri, vincitore del concorso :). Il suo, tra i vari scritti che mi sono arrivati, mi ha davvero colpito per la finezza descrittiva e la ricchezza di particolari, oltre che per la capacità di trasmettere vividamente la drammaticità della situazione che andava a raccontare. Prima di leggere il suo testo, però, venite a conoscerlo con una breve intervista!

 

 

 

Ciao Antonino, benvenuto su Penne d’Oriente e complimenti. Come nasce la tua passione per la scrittura?

Intanto volevo ringraziare Penne d’Oriente per avermi dato la possibilità di essere letto da una platea di autori e lettori che vanno oltre la mia cerchia di amici e conoscenti, e ricevere un apprezzamento sincero e reale su un mio racconto, una recensione che mi onora in quanto libera da influenze esterne. La mia passione per la scrittura, nasce alle scuole medie, quando inizio a intrecciare parole che io chiamo poesie. È principalmente amore per la letteratura. Amavo molto studiare tutti gli autori in genere, specialmente quelli del Novecento. Narrare con rime o dettagliando l’ambiente in cui si muove un personaggio mi da la possibilità di resistere su un foglio di carta mentre il mondo corre veloce. Scrivere è una sfida, è riuscire a comunicare qualcosa emozionando. È crescere e conoscere altri luoghi. Il contest di Penne d’Oriente è stato una piacevole sfida, in quanto mi sono cimentato nella costruzione di un luogo lontano da me, come tempo e come spazio, dove ho provato a sentirmi parte di esso, di quelle lande dalla colorazione “cinerea e desolata” provando quello che il protagonista sente e vede a seguito di una catastrofe che non vorremmo mai vivere. Sopravvivere appunto, a un “Terremoto di sangue”.

 

E l’Oriente? E’ una tua passione?

Ni…Principalmente scrivo dei miei luoghi, di Leonforte, la mia città d’origine. È qui che ambiento spesso i miei racconti. Mi sono spinto al di là della Sicilia, qualche volta, per far muovere i miei personaggi in luoghi che comunque conosco, magari perché li ho visitati in un viaggio. Grazie al Blog Penne D’Oriente ho avuto modo di scoprire questa parte di mondo che ignoravo, sviscerando una passione, sicuramente da coltivare sia con la scrittura sia con qualche viaggio, per toccare con mano questa realtà. Il Giappone, la Cina, la Corea sono luoghi tutti da scoprire, specialmente per il loro lato metropolitano, per l’infinità di storie che racchiudono.

 

Da cosa è nata l’idea per questo racconto a tinte così forti?

La storia è nata da un intreccio di idee. Innanzitutto da Hiroshima e dalla drammatica assenza di vita che ne è derivata dopo l’esplosione del 6 agosto 1945, da lì ho tratto le basi per scolpire la vicenda. Sul web ci sono molte immagini di quel silenzio, di quell’infecondità lasciata in eredità a quelle terre. “Terremoto di sangue”muove i passi nell’odierna Corea, in particolare nella contea di Yeongcheon, sede del Christian Sculpture Park, famoso soprattutto per una sua singolare statua muscolosa. Ho cercato di raccontare ciò che potrebbe essere in un mondo continuamente minacciato da imminenti attacchi. Spero emerga la crudezza della guerra di ieri e di quella di oggi. Vuole essere un modo come un altro per non dimenticare le vittime, i caduti e la distruzione che ogni conflitto arreca. 

 

Quali sono i tuoi libri o autori preferiti, e che consiglieresti ai miei lettori?

Leggo di tutto, dai Classici ai Thriller. Autori preferiti Giovanni Verga e Fedör Dostoevskij. Dei contemporanei mi è piaciuto molto Giorgio Faletti. Ai lettori di Penne d’Oriente naturalmente consiglierei la lettura dei testi recensiti dal tuo blog, cosa che farò anche io, e comunque lancio l’invito a leggere autori emergenti.

 

Ringrazio di cuore Antonino per questa bella intervista, che ho davvero apprezzato. E ora vi lascio al suo racconto, buona lettura cari lettori!

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Terremoto di sangue

L’edificio pressoché rettangolare emergeva da una distesa pianeggiante di terra riarsa e brulla, dove a stento si avvertiva il tracciato del terreno zappato. Il suolo brullo e arido aveva una colorazione cinerea e desolata, e gli unici arbusti spauriti che sopravvivevano sommessi a quell’infecondità erano quelli a ridosso di qualche asciutto canale che tagliava la drammatica assenza di vita, al di là del quale, la polverosa terra ritornava a padroneggiare assediando le austere casette dalle tegole curve che permeavano la campagna qua e là.
Giunsi davanti l’uscio procedendo per la farinosa rotabile fino al crocevia. Il portone era sradicato e garriva al vento solo una sorta di lenzuolo bicolore, dove l’ocra sbiadito si diluiva con il chiaro sporco del telo. Spostai la stoffa stinta e davanti mi ritrovai una rampa di scale che portava al piano rialzato, lo percorsi senza notare la porta schiusa alla mia destra appena davanti all’iniziale gradino. Mi spinsi fino ad una inferriata che un tempo forse era servita per serrare il passo a qualche malintenzionato.
Sembravano le sbarre di un carcere, arrugginite e sudice. Le pareti erano tenebrose, plumbee dalla fuliggine dei candelabri a muro che dovevano aver sostenuto centinaia di ceri accesi da tanti anni. Oltrepassai le sbarre attraversando il cancelletto spalancato per intero ed ebbi come un terrore che mi agghiacciò il cuore, la vista di una scultura sanguinante. Giaceva sul rubicondo pavimento un Cristo in croce, era un Cristo opalescente squarciato in due all’altezza dell’addome. Stava disteso su quel che rimaneva della croce, tra i calcinacci e le macerie cadute dal tetto. Grondava sangue. Liquido organico, viscoso, umano, che nasceva da quel marmo e colava striando di scarlatto il candido dei muscoli scolpiti. Più in là balenava il vermiglio che fuorusciva dal resto del corpo lattiginoso. Era un cristo muscoloso, tarchiato, con le braccia possenti e i pettorali pronunciati. Il viso non era sofferente ma quasi rabbioso. Notai tra i detriti e i frammenti di calce secca qualcosa che doveva appartenere alla scultura, una sorta di sfera, una riproduzione del pianeta terra per lo più danneggiata, ai piedi di quello che doveva essere la croce vi erano delle incisioni, sembravano segni hangul, il sistema di scrittura coreano.
Tutto attorno era il resoconto di un terremoto. Polvere, sfasciume, sassi e angoscia.
Non avevo il coraggio di avvicinarmi a quel liquido che ribolliva e fumava, era caldo come la sensazione rovente che accusavo in tutto il corpo. Io stavo immobile come quella statua, paralizzato dal panico e dal sudore che mi rammolliva le gambe e mi inaridiva la bocca. Il tubare di un piccione mi fece precipitare nel baratro dell’inquietudine. Patii i battiti che pulsavano nel mio collo e le orecchie che mi scoppiavano. Mi mossi di qualche passo nel fosco corridoio, tremante con il respiro affannato. Sulla destra una porta smaltata d’avorio lasciava intravedere quella che doveva essere la camera di un notabile. Calcinacci sul pavimento e sulla scrivania, ritratti di gente sconosciuta lacerati e quadri di paesaggi squarciati spiravano insieme ai detriti sul mattonato.
Il battito d’ali del piccione che si librava verso di me arrivò silenzioso dopo l’assordante fragore di sparo, e precedette i proiettili sparati da una divisa nemica, da un viso straniero che mai avevo incontrato in vita. Stilettate all’addome. Caddi riverso a terra con il busto squarciato, sanguinate come quel Cristo con il quale adesso condividevo la rabbia e il dolore.
Ripresi conoscenza infastidito dal molestare insistente di uno sciame di mosche che avidamente ronzavano e si cibavano del sangue rappreso delle mie ferite fasciate alla meno peggio con delle garze che sembravano putride. Aderivano alla mia pelle in un crogiolo di nastro da imballaggio e sangue raggrumato. Ero dolorante in tutto l’addome e non avevo forza nei muscoli, avevo le braccia legate con una cinghia alla branda metallica, nell’incavo destro un ago infilzato collegato con un tubicino mi iniettava un liquido paglierino rassomigliante all’urina. Giacevo sopra una scomoda rete senza materasso. Serrati a me si trovavano, riversi su centinaia di brandine deteriorate, uomini ammassati insieme alle mosche e al sudicio. Erano stipati in maniera disordinata e caotica, tra il sangue rappreso e l’odore ripugnante di scarponi e di morbo, come un nido di vespe sotto una grande struttura simile ad un hangar che finiva immergendosi nella folta boscaglia. Molti di quegli uomini che giacevano erano già cadaveri da giorni. Le mosche banchettavano sulle foro carni e sulle loro ferite. Vedevo alcuni gendarmi armati che accompagnavano altri uomini in camice bianco, per lo più tutti con lineamenti orientali, i medici controllavano le salme e annotavano qualcosa su una sorta di registro. Non riuscii a scorgere quante blatte infestassero il pavimento, ma ne vidi qualcuna sui moribondi.
Gridai e gridai con tutta la forza che avevo in corpo ma quegli uomini sembrava mi ignorassero.
Avevo sentito che la continua molestia che provoca l’insistente ronzare di alcune mosche attorno agli animali poteva provocarne la perdita significativa di peso, e dopo qualche tempo, che mai riuscii a capire quanto poiché mi addormentavo e svegliavo in base alle flebo che mi iniettavano, mi ritrovai quasi scheletrico su quel letto, e sentii parlare la mia lingua per la prima volta da quando ero arrivato in Corea.
Un uomo dalle fattezze occidentali mi chiese le mie generalità e volle sapere come mai mi trovavo in quel Paese. Io non lo sapevo. Ricordavo solo la statua del Cristo spaccata, il terremoto, lo sgomento. Nient’altro.
Mi spiegò che la Corea del Sud aveva subito un attacco nucleare e che sicuramente avevo assorbito pesanti radiazioni. Mi spiegò che non sarei più tornato nel mondo dei vivi. Mi chiarì che quello era il mio purgatorio in attesa della morte, e mi disse che nessuno mi avrebbe ucciso ma nemmeno curato.
Rimasi lì, in silenzio, in quel limbo in mezzo alla foresta, legato sopra una branda metallica, senza cibo né acqua, con un ago nel braccio, in attesa del buio.
Nella città di Yeongcheon, ed in tutta la contea il paesaggio era desolato a causa dell’esplosione atomica. Al Christian Sculpture Park tutte le statue erano state risucchiate dall’onda d’urto, nemmeno quella del possente Cristo in croce aveva resistito, nonostante la fisionomia da body builder. Tutti i suoi poderosi muscoli erano crollati a pezzi come in un terremoto, tingendosi del sangue di una scolaresca in gita al parco quel giorno.

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Grazie per avermi fatto compagnia anche oggi cari lettori, a presto.